Voglio andare a Dreamland - La Hollywood di Murphy e Brennan
- La povera Olga
- 23 set 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Hollywood è la miniserie in 7 puntate ideata e sceneggiata da Ryan Murphy e Ian Brennan, uscita su Netflix a maggio 2020.
La trama ruota attorno a una serie di personaggi, finzionali e reali, che si intrecciano nella produzione del film Peg, in una Hollywood anni Cinquanta rivista attraverso il procedimento del What if: cosa sarebbe accaduto se? Grazie a questo strumento, mette in gioco una critica delle varie forme di discriminazione che hanno caratterizzato l’industria cinematografica di quegli anni (e di quelli correnti).
La serie ha alcuni problemi strutturali. I pesi dei personaggi inizialmente sembrano sbilanciati: il protagonista Jack Castello (David Corenswet) non è particolarmente interessante, soprattutto all’inizio appare incapace, un raccomandato grazie alla sua bellezza, salvo avere alcune delle scene più interessanti nel suo rapporto con la giovane moglie; lo stesso vale anche per Raymond Ainsley (Darren Criss), un personaggio molto positivo, ma forse non abbastanza caratterizzato (o caratterizzato solo dalla sua positività), soprattutto rispetto ad altri personaggi, come Archie Coleman (Jeremy Pope) e Rock Hudson (Jake Picking), centrali nel racconto e dipinti con maggior precisione. L’obiettivo degli ideatori è forse primariamente quello di riscrivere la Storia (ne riparleremo ancora), a discapito della tridimensionalità di alcuni personaggi.

Il versante femminile ha il suo massimo fulgore nella seconda parte della serie, acquisendo uno spessore che mancava nei primi episodi (e non è un caso che sia proprio una donna a fare da spartiacque fra la realtà e la fiction, tra la prima e la seconda parte della serie) e diventando il motore dell’azione. Camille Washington (Laura Harrier) e Claire Woods (Samara Weaving) soffrono dello stesso difetto delle loro controparti maschili, rischiano di risultare piatte, mentre Avis Amberg (Patty LuPone), Ellen Kincaid (Holland Taylor) e Jeanne Crandall (Mira Sorvino), le figure femminili “anziane” (portatrici del tema della vecchiaia anagrafica ed artistica), sono le più sfaccettate e interessanti. Nella serie sono nodali anche personaggi femminili secondari, come Henrietta Castello (Maude Apatow), Anna May Wong (MIchelle Krusiec), Hattie McDaniel (Queen Latifah), Vivien Leigh (Katie McGuinness), tutti legati a tematiche sociali che oggi sono solo apparentemente risolte.

Un difetto fastidioso è il ricorso abbondante nella prima parte della serie agli spiegoni: forse per paura che certi temi non passassero, sono stati dati ai personaggi lunghi monologhi emozionali, che se in un primo momento riescono a toccare lo spettatore, subito dopo appaiono un po’ fuori posto, artificiosi, eccessivi (un po’ di fiducia al pubblico va data). Le scene in cui vediamo i personaggi agire o in cui sono presenti dialoghi dinamici risultano molto più efficaci di quelle in cui i protagonisti spiegano quello che accade.
Il passare del tempo è forse eccessivamente repentino, rischiando di liquidare certe vicende troppo facilmente e affidandosi completamente, in questo caso, all’attenzione dello spettatore.
L’estetica anni Cinquanta è favolosa, sia negli ambienti che per il reparto costume e capelli, presenza glamour ma discreta, che non soverchia la narrazione o i personaggi.
A livello di sceneggiatura sono molti i richiami a personaggi storici che fanno emozionare, dal discorso di Eleanor Roosevelt sulla possibilità del cinema di cambiare il mondo alla chiamata di Hattie McDaniel. Senza troppo bisogno di essere spiegate a parole, certe scene raccontano con vividezza delle discriminazioni (come la sezione sul ruolo da cameriera di Camille). Molte altre sono gustosissime (se l’avete vista, ricorderete certamente nel primo episodio una certa scena in cui compare una fila di Oscar). Infine, come non apprezzare gli inevitabili elementi metacinematografici, come la scena della revisione della sceneggiatura, una lezione di scrittura cinematografica per il pubblico.
Murphy e Brennan compiono un'operazione di What if (lo stresso procedimento narrativo utilizzato da Tarantino per il suo C’era una volta…Hollywood!), ricostruendo una Hollywood aperta alle minoranze, tollerante, che in realtà non è mai esistita (e non lo nasconde). Prendono quel vecchio mondo e lo raccontano attraverso le ideologie di oggi. È una rilettura interessante, gli ideatori ci danno la loro visione di Hollywood, di ciò che avrebbero voluto fosse stata, criticando al contempo ciò che in realtà è ancora. È infatti la creazione di questa Hollywood alternativa e utopica che permette di mettere in luce “il marcio”: dall’omofobia e dal razzismo che non sono mai scomparsi, a tutto lo sporco che è emerso negli ultimi anni (sono tanti gli abusi cui assistiamo nei sette episodi), che vediamo avere origini più antiche, mascherate da altro. La Hollywood di Murphy e Brennan allora non è una città più aperta, ma solo più apertamente criticabile: la critica è fatta passare attraverso un’idea di apertura che non c’è, fittizia, a posteriori, inserendo dei personaggi che sono pronti al cambiamento in un contesto che non permetteva di esserlo, rendendo così evidenti le contraddizioni e le ingiustizie.
La serie raccoglie un ampio ventaglio di emarginati, di individui rifiutati dalla società o costretti in posizioni subalterne.
Le figure di Rock Hudson e Henry Wilson (Jim Parsons) raccontano l’omosessualità con sfumature diverse. Nel primo caso qualcosa di tenero, qualcosa che non è altro che amore. Nel secondo, emerge la visione che si aveva di essa all’epoca, qualcosa di perverso e vizioso (in questo caso è molto apprezzabile il monologo messo in bocca a Wilson nell’ultimo episodio, che è ammenda del personaggio senza esserne assoluzione).
Secondo tema forte è quello razziale, senza dimenticare nessuno: Camille e Archie (figure essenziali per Peg) sono afroamericani, Raymond è mezzo filippino, Anna May Wong è cinese-americana. Camille e Anna May sono presentate agli spettatori come esseri umani, quindi non appiattibili sugli stereotipi cui invece vengono condannati dall’industria cinematografica e dalla cultura che la produce.

Infine, grande protagonista della serie è il femminile, emarginato per eccellenza e capace di creare una rete di solidarietà. Questa tematica si snoda attraverso le giovani, come Camille e Claire, ma soprattutto grazie ad Avis ed Ellen, l’attrice anziana o la donna sfiorita, che hanno ancora dei bisogni (che siano il desiderio fisico o l’amore). A siglare l’importanza del femminile è l’evento che innesca tutti i seguenti: la scelta di una donna a capo degli studios è il cambiamento che permette tutti gli altri cambiamenti.
Il sesso è un altro grande argomento, abbondantemente presente sia a livello di scene che di critica. Da un lato la sessualità è sdoganata dai facili stereotipi, viene allargato il discorso mostrandone lati scomodi, come il diritto delle donne (di ogni età) al desiderio. Dall’altro però rischia di rimanere superficiale: il tema della prostituzione, in particolare, che sembra essere la chiave del successo a Hollywood; presentato positivamente rispetto ai ragazzi dell'autolavaggio, è sfruttato dallo stesso protagonista per riuscire realizzare il suo sogno, in maniera quasi contraddittoria viste le critiche che la serie vuole muovere agli abusi del mondo di Hollywood.
La serie si mantiene politicamente corretta, prende una posizione, ma non aggredisce nessuno e tantomeno condanna (provocando talvolta un po’ di disappunto). Sembra muovere una critica e poi fare un passo indietro per non ferire.
Da un lato il finale conquista: è una conclusione positiva, che fa bene alle persone. In tempi come questi servono prodotti così, è giusto che ci siano, le persone hanno bisogno di vedere queste cose perché spesso sono ancora troppo piene di stereotipi. Queste cose vanno fatte vedere. Netflix è una piattaforma aperta a tutti, i ragazzi più giovani possono, meritano di, venire a conoscenza di certe cose e figure.
Una serie come Hollywood fa capire quanto sarebbe facile essere tutti un po’ migliori, accettare quello che ci sembra diverso e ricordarci che è semplicemente umano.
Poi, però, ci si ricorda anche a quanto possiamo essere miseri come esseri umani e sorge un paragone con film come Blackkklansman (qui l’articolo di Francesca Marchionno).
Forse ci servono entrambi: abbiamo bisogno di film che ci ricordino la verità, che ci ricordino che le cose non sono ancora cambiate e che ancora c’è da lavorare, ma ci servono anche cose come Hollywood, che alimentano il bisogno di speranza e ci dicono che c‘è una lotta che avanza anche nel piccolo della propria vita personale (banalmente, nell’accettare che due uomini possano sfilare assieme, mano nella mano, sul tappeto rosso degli Oscar come in strada).
Infine, Hollywood è anche un omaggio. Non tanto a Hollywood in sé, ma a ciò che il cinema ha rappresentato o avrebbe potuto rappresentare per tanti. Un omaggio a delle figure, che non hanno potuto riscattarsi. E un invito a fare del cinema il mezzo del cambiamento, come Archie e Camille sognano:
perchè tutti i bambini possano vedere qualcuno come loro sui grandi schermi.
Brenda Lenoci
Francesca Marchionno
Daniela Pellacani
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