"Yes, I can see now!": Charlie Chaplin e Luci della città
- Brenda Lenoci
- 2 lug 2020
- Tempo di lettura: 8 min
«Senti Matthew, quando Chaplin voleva ottenere un bell'effetto cinematografico sapeva come fare, meglio di Keaton, meglio di chiunque altro. Ricordi L'ultima inquadratura di Luci della Città'? Chaplin guarda la fioraia, lei guarda Chaplin... non dimenticare che la fioraia era cieca e questa è la prima volta che lo vede. È come se attraverso gli occhi di lei anche noi lo vedessimo per la prima volta. Charlie Chaplin, Charlot, l'uomo più famoso al mondo. Ed è come se non lo avessimo mai visto prima.»
Dialogo da The Dreamers (2003), Bernardo Bertolucci Luci della città (City Lights) è un film di Charlie Chaplin del 1931. Si tratta di un'opera di transizione, una sorta di addio all’innocenza: il Vagabondo, solo apparentemente identico da oltre un decennio, in realtà è in continuo mutamento. In questo film Charlot è una figura che riporta alla vita: restituisce la vista alla fioraia e salva il milionario (quadro geniale di una società capitalistica, ambigua, schizofrenica, che non ha coscienza di sé) dalla rovina. Per la prima volta il Vagabondo assaggia la ricchezza ideale, vi si adatta rapidamente e si ribella davanti alla sua provvisorietà. Il film ha avuto una produzione lunga, tormentata, a causa del perfezionismo quasi morboso del regista; ci furono inoltre numerosi ripensamenti, in quanto si voleva distribuire un film muto nel momento stesso in cui il sonoro stava entrando in vigore (è noto quanto poco Chaplin amasse il sonoro). Nonostante ciò la pellicola ottenne un successo planetario e fu quella alla quale Chaplin rimase più legato.
Chaplin nel febbraio del 1928 inizia ad immaginare il film. L’idea originaria era la storia di un clown che, a seguito di un incidente durante un numero, aveva perso la vista: il clown aveva una figlioletta malata e, tornato a casa dall'ospedale, il medico gli consigliava di tener nascosta la sua cecità. A Chaplin l’idea sembrava troppo melodrammatica, e il personaggio del clown si trasformò in quello della fioraia cieca. Nel giugno dello stesso anno, mentre l’intreccio del film si stava costruendo con fatica, l’avvento del sonoro stava rivoluzionando la produzione e distribuzione cinematografica (nel 1927 arrivò Il cantante di jazz e nel 1928 il primo film completamente parlato della storia del cinema, Lights of New York di Bryan Foy). Chaplin, nonostante la sua ostilità nei confronti del sonoro, tentò di rimanere al passo coi tempi prendendo parte all’emissione radiofonica della NBC Dodge Brother Hour che permetteva ai radioascoltatori di sentire la voce dei loro beniamini; era curioso verso il nuovo linguaggio, ma dichiarò che in futuro avrebbe evitato la radio per proteggere il mistero del suo alter ego cinematografico. Il dibattito tra chi era pro e chi contro il sonoro fu coinvolgente e dinamico, coinvolse industria e pubblico e si estese a tutti gli spazi della carta stampata. Non fu uno scontro tutto teorico, ma occupò riviste di cinema, di costume, interpellando cineasti e filosofi e creando dei referendum popolari.
Il primo ciak di Luci della città fu nel dicembre 1928 ma ancora mancava una completa sceneggiatura. Diversi documenti attestano che la realizzazione del film in questione subì un ritardo, in quanto era necessario analizzare i gusti del pubblico e la sua opinione nei confronti dei film parlati. Man mano che le riprese proseguivano, cresceva il timore di un fallimento commerciale, proprio perché il pubblico voleva un film parlato: ecco perché la pellicola rappresenterà una grande prova di libertà artistica.
Chaplin resistette al sonoro e il film racconta proprio di questa ribellione. «I film parlati li detesto. Stanno rovinando l’arte più antica del mondo: la pantomima! Stanno distruggendo l’immensa bellezza del silenzio. Le immagini sono animalesche, grottesche, sono di una bellezza indicibile.» Il rifiuto del sonoro appariva presuntuoso ma, per Chaplin, Charlot non avrebbe mai parlato e per questo venne molto criticato. La vera sfida lanciata da questo film al sonoro è stata l'aver basato l’equivoco su cui poggia l’intera narrazione su un rumore che non sentiamo: la portiera di un’automobile sbatte e la fioraia è convinta di trovarsi davanti ad un passante facoltoso. In un veloce incontro dovevano stabilirsi le premesse narrative dell’intera storia. Charlot doveva capire che la fioraia fosse cieca, lei doveva scambiarlo per un ricco signore e la scena doveva comunicare attrazione tra i due. La ricerca di questo pretesto paralizzò Chaplin per mesi. La scena venne girata oltre 200 volte nel corso di 19 mesi e rimase la più travagliata nella storia del suo cinema. Dopo 4 settimane di lavorazione Chaplin si ammalò e la scena dell’incontro era ancora irrisolta perciò tutto rimase immobile per oltre un mese. Su 83 giorni di lavorazione, 62 furono di inattività. Il primo aprile tornò agli Studios e ricominciò proprio dalla scena del fiore. Ora appariva più sentimentale, ma la soluzione non si trovava così provò a fare delle modifiche allontanando la ragazza dalla fontana. Certo, era eccessivamente meticoloso, ma secondo lui la ragazza non era capace di porgere il fiore. Riuscito a risolvere questo passaggio rimaneva il problema di come la ragazza lo riuscisse a scambiare per benestante e finalmente arrivò l’idea dello sportello della macchina. Secondo Chaplin «L’arte cinematografica assomiglia alla musica più di qualunque altra forma artistica.» Non stupisce che per questo film, messo in discussione dall’avvento del sonoro, Chaplin decise di comporre la sua prima partitura, con l’aggiunta di un tassello al controllo totale dell’opera: da ciò capiamo la sua volontà di avvicinarsi al mezzo acustico in maniera creativa. Prima di concentrarsi sulle composizioni musicali è giusto porre l’accento anche sui suoni e rumori, che svolgono un ruolo fondamentale: abbiamo quelli sincronizzati sulla colonna, come il fischietto, i cani che abbaiano o la campanella del ring, e poi quelli immaginati, come il grammofono. Ritornando alla musica, Chaplin voleva comporre qualcosa di elegante e romantico, che fosse in contrasto con il suo alter ego cinematografico perché questa musica concedeva ai suoi film una dimensione emotiva, visione che andava un po’ contro quella degli arrangiatori, concentrati sull’offrire al pubblico musica divertente. Per lui «non c’era nulla di più avventuroso ed entusiasmante che sentire le arie che si sono composte e suonate per la prima volta da un’orchestra di 50 orchestrali», e in diverse occasioni diresse lui stesso l’orchestra. Chi si occupò dell’adattamento ed orchestrazione della musica del film sulle arie ricevute da Chaplin furono Arthur Johnston e Alfred Newman. Il vagabondare di Charlot per la città era unito ad una galante musica agrodolce, realizzata dal violoncello, che marca i momenti dove il vagabondo è positivo. Con la canzone Tomorrow the birds will sings egli prende in giro il genere di canzone a ‘tema fisso’, molto diffuso nei primi parlati. Vi sono due temi d’amore: un valzer molto delicato e un motivo tragico che voleva rappresentare l’impossibilità del Vagabondo di trovare l’amore. Questo secondo tema viene suonato anche nel finale del film. Per i momenti più leggeri di Charlot udiamo un tema spiritoso dove possiamo riconoscere il suono del fagotto, come nella scena dell’incontro di boxe, la più divertente, che rappresentò un momento di ilarità anche per la troupe sul set, spesso sotto pressione. All’interno del film si ha come la sensazione che compaiano motivi noti. La danza degli apaches risulta una imitazione, la Rapsodia satanica n. 2 è trasformata in jazz per una sequenza di inseguimento, un motivo coinvolgente somiglia a I Want To Be Happy.

L’intero film sembra tendere al suo finale, che rappresenta uno dei momenti più alti dell’opera di Chaplin. Woody Allen ammise di essersi ispirato a questa scena per il finale di Manhattan (in foto). La sequenza si snoda in questo modo: poche inquadrature semplici, campi e controcampi sugli sguardi, la donna ha riacquisto la vista ed è riuscita ad aprire un distinto negozio di fiori mentre Charlot è appena uscito dalla prigione (e questo lo notiamo anche dalle sue condizioni trasandate). Inizialmente, non riconoscendolo lei gli offre un fiore, ma sfiorando la sua mano finalmente capisce chi ha di fronte. Nello sguardo di Charlot leggiamo un misto di preoccupazione ed emozione. Riesce a stento a dire: «Potete vedere, ora?», e lei risponde: «Si, posso vedere ora!». Straordinario doppio valore del “poter vedere” che lascia il finale aperto. Nello sguardo di Charlot vediamo imbarazzo per essere visto per quello che è e insieme una speranza. Il film si sospende su questa emozione indecifrabile e una dissolvenza incrociata reca la didascalia: “the end”, ma il film termina senza concludersi veramente. In queste 10 inquadrature si concentra tutto il genio di Chaplin.
«Guardavo la ragazza e ad un certo punto ebbi la sensazione di non recitare; studiavo la sua reazione con un leggero imbarazzo cercando di non essere troppo sopraffatto dall’emozione; mi sentii in uno stato di grazie che non si ripresentò mai più.»
Secondo Jean Mitry: «la commedia sentimentale, qui, è elevata ai livelli della tragedia. (…) uomo perduto tra gli uomini. Qui, l’accettazione del vagabondo all’interno della società si regge su un malinteso. Rendendo la vista alla ragazza cieca sa che sta firmando la sua condanna. Invece di partire dalla realtà per evaderne, parte dal sogno, per ricadere brutalmente nel reale e trovare una fine senza fine, (…) quella dell’uomo che è sul baratro della disperazione e vuole superarla. Vi è presente tutto il prestigio dell’illusione, tutta la bellezza di un sogno spezzato dalla realtà.» Va valutato anche il ruolo della fioraia Virginia Cherrill, ancora minorenne quando firmò il contratto. Prima di firmare il contratto lei specificò che non aveva mai studiato teatro e lui rispose che era esattamente quello che voleva. Se avesse studiato avrebbe dovuto cancellare il suo metodo in quanto Chaplin ne aveva uno proprio e voleva lavorare con quello: non avevano un copione; recitava tutte le parti e gli attori dovevano riprodurre ciò che lui faceva.
Il rapporto che vediamo tra i due sullo schermo nella realtà non esisteva. Spesso il regista era assente sul set, perciò Virginia cercava di uscire di soppiatto dallo studio, finché non fu scoperta. Credendo che Chaplin non sarebbe venuto sul set, uscì a pranzo arrivando con dieci minuti di ritardo, ma il caso volle che quel giorno lui fosse già sul set. La licenziò nel bel mezzo della lavorazione del film e le disse che era viziata e che non poteva lavorare nel cinema. Di seguito chiamò per sostituirla la star de La febbre dell’oro: Georgia Hale. Recitarono insieme la scena finale e lui ne fu molto soddisfatto, così decise di girare con lei tutto il film da capo. Subito dopo Chaplin si accorse che i giorni di produzione erano già stati troppi, e non poteva permettersi di sprecare tutta quella pellicola, perciò richiamò la Cherrill. Il rapporto tra i due era debole fuori dal set. Per Virginia, la scena più ostica da girare fu proprio quella finale, anche se molti credono sia stata quella dell’incontro la più difficile. I ricordi di Virginia sono di un uomo in continua azione e per lei questo spiegherebbe la sua insicurezza: il fatto che fosse sempre al centro dell’attenzione lo aiutava affinché le persone non conoscessero la sua vera intimità, ma solo il personaggio. Quando la pellicola uscì nelle sale americane (gennaio 1931) il Paese stava entrando nella morsa della Grande Depressione. Prendendo in considerazione la situazione culturale degli anni Venti e l’esperienza del regista in quel frangente, il film è da osservare come il commiato a questa decade, caratterizzata dalla celebrazione del materialismo, dalla decadenza della moralità vittoriana, dalla nuova generazione di giovani donne, la cui massima rappresentante era la flapper. Perciò, il film intrattiene un forte rapporto con la cultura americana, l’età del jazz e il suo edonismo e con un tema urbano molto presente. Divenne un film sulle vittime della “cecità” altrui: su quelli che gli accecati non vedono e non vogliono vedere. Per la prima del film Chaplin scelse il Los Angeles Theater che terminò i suoi 2.200 biglietti in poche ore. Il film ebbe senza ombra di dubbio, un successo sorprendente, e dopo la prima, alcuni cinema della città lo proiettarono ininterrottamente dalle nove della mattina a mezzanotte. In quel periodo i film muti erano praticamente una rarità ma alla prima, i 25.000 ammiratori causarono quasi una sommossa. Alla prima erano presenti due ospiti speciali, Albert Einstein e consorte. Chaplin ricorda: «Durante la scena finale mi accorsi che Einstein si asciugava gli occhi, prova definitiva che gli scienziati erano incurabili sentimentaloni!».
Citazioni e riferimenti sono tratti da:
Jérôme Larcher, Charlie Chaplin, collana Maestri del cinema, Cahiers du Cinema, 2011
Charlie Chaplin, Luci della città, DVD con booklet a cura di Criterion Collection e Cineteca Bologna
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