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«Be the rabbit» – Jojo Rabbit, la satira anti-odio di Taika Waititi

  • Immagine del redattore: Francesca Marchionno
    Francesca Marchionno
  • 25 mar 2020
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 4 apr 2020



«Non è strano che nel 2019 qualcuno debba ancora fare un film per spiegare alle persone che non devono essere dei nazisti?» Con una frase dello stesso regista, si può iniziare una profonda riflessione su quello che è uno dei migliori film usciti nel 2019. Arrivato in ritardo nelle sale italiane (il 16 gennaio 2020, mentre in America era nelle sale già ad ottobre), Jojo Rabbit è l’ennesimo film sulla Seconda guerra mondiale e l’ennesimo film che parla di nazismo. Ne avevamo davvero bisogno? Evidentemente sì. Ma Taika Waititi, regista neozelandese con origini ebraiche, decide di farlo in un modo tutto suo. Riprendendo i vari Mel Brooks, Charlie Chaplin e Roberto Benigni de La vita è bella, Waititi ci dona una visione del nazismo da una prospettiva rara, quella di un bambino… un bambino nazista. Fanatico come pochi, Johannes Betzler ha così a cuore il suo credo che il suo miglior amico immaginario è nientemeno che Adolf Hitler stesso. Questo Hitler, interpretato dallo stesso regista (che ama recitare nei propri film), è un giocherellone, simpatico e amichevole… almeno all’inizio. L’idea di inserire questo tipo di Hitler è forse uno dei punti più forti della pellicola: non è l’Hitler che tutti conosciamo, è la visione innocente di un bambino indottrinato da un ideale malato, che non avendo il padre accanto idealizza questa figura e la pone come punto di riferimento.


Il film inizia con Johannes che va a passare qualche giorno in un campo di addestramento della Gioventù hitleriana dove, dopo esser stato preso di mira da un paio di ragazzi e preso in giro perché si rifiuta di uccidere un coniglio, volendo dimostrare il suo valore rimane vittima di un incidente con una mina. Essendo ferito, deve rimanere in convalescenza a casa dove, un giorno, scopre che la madre tiene nascosta una ragazzina ebrea, Elsa. È proprio il rapporto che si instaurerà con lei che porterà il piccolo Jojo a rivalutare le sue convinzioni.


Jojo Rabbit ha vinto già numerosi premi e ha incassato sei candidature ai recenti Oscar portando a casa la statuetta di Miglior sceneggiatura non originale. Il film è un adattamento del romanzo di Christine Leunens, Il cielo in gabbia. Waititi ha scritto anche la sceneggiatura e ha reso propria la storia, al punto che risulta molto differente da quella originale. Nel libro, Johannes è un diciassettenne, il rapporto con Elsa è molto diverso rispetto a quello del film e, inoltre, non è presente Hitler. Attraverso un profondo racconto di formazione, Waititi crea una storia che resta in equilibrio instabile tra commedia e dramma, con elementi di surrealismo che servono a esorcizzare parecchie delle assurdità e delle atrocità degli anni del nazismo. Si gioca molto con le leggende che giravano intorno ai nazisti, come per esempio il rimando ai cloni. È stata criticata da molti l’idea di rendere questo tipo di storie attraverso la satira e la commedia, ma è piuttosto chiaro che è proprio questo tipo di impostazione data al racconto che lo rende tanto speciale. Sembrerà strano ma è più difficile far ridere qualcuno che farlo piangere, e, spesso, la commedia diviene uno strumento potente per fronteggiare ideali e indottrinamenti così aberranti come quelli sviluppati dal nazismo.



La Germania che fa da sfondo a questo racconto è sull’orlo del precipizio, sono gli ultimi anni di guerra e i nazisti stanno perdendo e questo porta i tedeschi a essere sempre più paranoici: il modello esemplare è il personaggio di Rebel Wilson, la tipica donna del periodo che quasi fa paura per la sua cieca obbedienza. La scena del campo di addestramento è esempio della società hitleriana. In questo, Waititi riesce ad inserire tra le righe un discorso di genere: quando ai ragazzini viene presentato il programma di quei giorni, i maschietti devono imparare l’arte della guerra mentre le femminucce i classici compiti di ogni donna, ovvero fare da infermiere e da mamme. Le assurdità dette sugli ebrei al campo rimandano palesemente anche a quello che si dice oggi di altre popolazioni; perché in fondo Waititi fa questo con Jojo Rabbit, utilizza le storie del passato per parlare di quello che succede oggi nel mondo.


Il comparto tecnico del film convince appieno. È notevole come Waititi abbia affrontato questo tema con toni “leggeri”, non soltanto attraverso i contenuti, ma anche mediante le scelte stilistiche. C’è un netto contrasto tra le atmosfere del film e la storia che viene raccontata: le musiche di Michael Giacchino sono spesso molto colorate e movimentate, così come la fotografia dai toni pastello, che vede un cambio netto di colori e composizione solo in un determinato punto (un indizio può essere dato dalla parola farfalla), come anche i costumi vivaci. Quest’ultimo punto è spiegato dallo stesso Waititi: i tedeschi sapevano di stare per perdere la guerra e che il sogno stesse per terminare quindi cercavano di vivere al meglio, indossando i migliori abiti che avevano nell’armadio. La regia di Waititi gioca principalmente con la geometria, i campi lunghi e le carrellate laterali. Potrebbe essere facile pensare a Wes Anderson e al suo Moonrise Kingdom ma se si va oltre e si analizza tutta la filmografia del regista si capisce che anche qui la regia è molto personale ed è quella che gli appartiene già dai primi film. Meriterebbe un’analisi molto approfondita la parte relativa ai titoli di testa: la sovrapposizione delle folle acclamanti che fanno il saluto nazista e le immagini di Hitler come fosse una rockstar con il sottofondo dei Beatles che cantano I wanna hold your hand in tedesco fanno quasi azzardare un richiamo al lavoro del sovietico Ejzenstejn negli anni Venti. È interessante come vengano messe in contrasto la bellezza del livello estetico con le atrocità del periodo, come l’inquadratura delle tende nel campo che viene fuori dalle scintille dei libri bruciati.



Il vero punto forte di questo film sono i personaggi e gli attori che li interpretano. Roman Griffin Davis riesce a dare corpo a soli dieci anni e alla sua prima esperienza cinematografica, ad un personaggio complicato e particolare: Johannes è un bambino figlio dei suoi tempi che accetta solo quello che ha visto fino a quel momento ma che in realtà nazista non è, da subito lo spettatore capisce di poter provare compassione per un bambino innocente che ha bisogno fortemente di credere e appartenere a qualcosa. Thomasin McKenzie interpreta Elsa che è il fulcro di tutto, della storia e del cambiamento di Jojo, una ragazzina forte e intelligente che non si fa abbattere da quello che le sta capitando e che, semplicemente essendo sé stessa, riesce a far aprire gli occhi al bambino protagonista. Rosie, la mamma di Jojo interpretata magistralmente da Scarlett Johansson, è invece la donna che tutte noi vorremmo essere: ribelle, tenace, madre paziente che capisce di dover aspettare suo figlio, Rosie è protagonista di una delle scene più belle del film (quando capirete che cenere e barba possono essere la stessa cosa avrete compreso); attraverso questo personaggio Waititi, che fino a questo momento si era soffermato sulla figura paterna nei suoi film, sembra scrivere una lettera d’amore metaforica alle madri e soprattutto alle madri sole. La parte più surreale della pellicola è presa in carica da alcuni personaggi secondari: il capitano K (Sam Rockwell) e il suo fedele compagno Finkel (Alfie Allen) entrambi simbolo di una minoranza non molto difficile da intuire, è infine il bambino più dolce che si sia mai visto tra i nazisti, Yorki (Archie Yates). Tutti e tre sono nazisti ma sono persone “buone”, servono a far capire che i tedeschi erano fondamentalmente “umani”. Il capitano K viaggia quasi a specchio con il personaggio di Hitler, durante tutta la durata del film subiscono un cambiamento al contrario e il primo finisce per regalare una delle scene più intense di tutta la pellicola. Yorki rappresenta la lucidità dell’innocenza, rende chiare delle cose che dovrebbero risultare ovvie e invece nessuno sembra vedere. Protagonista di una delle scene più angoscianti è l’unità della Gestapo, oltre al coniare il verbo “heilhitlerare” per sottolineare il delirio dell’epoca, Waititi riesce a far ridere e a tenere il ritmo e l’atmosfera tesa allo stesso tempo, riesce in modo impeccabile ad unire risate e angoscia. Poi c’è Hitler e Waititi riesce a modellare a suo piacimento una delle figure più controverse che la storia abbia conosciuto: dall’essere amico diviene piano piano il mostro che tutti noi conosciamo, terrificante il momento in cui arriva a parlare attraverso delle parole autentiche appartenenti ad uno dei veri discorsi del Führer.



Il film è pieno di simboli: le scarpe, i lacci, il pugnale e la danza sono alcuni esempi. I primi due portano con loro il significato più difficile da spiegare senza entrare nel dettaglio ma si potrebbe dire che sono connessi al concetto di maturità. Il pugnale sembra quasi indicare l’essere nazista di Jojo, gli viene sempre detto di non perderlo e se si pensa poi invece a come lo perde risulta chiaro. Alle scarpe è anche connessa la danza, figura fondamentale per diversi personaggi, viene vista come un simbolo di libertà e trova la sua massima espressione in un finale perfetto che ci fa sentire tutti un po’ eroi. “Cosa farai quando sarai libera?” “Ballerò”.



“Un modo per togliere potere a queste persone è ridere di loro”. Si può affrontare una cosa seria come il nazismo seguendo i criteri di cui si è parlato fino ad ora? Sì, altri giganti della cinematografia l’avevano già fatto, ma Waititi ha saputo aggiungere un tassello in più, arrivando, attraverso le risate e anche qualche lacrima, a farci capire che cambiano i soggetti ma i discorsi si ripetono. Siamo davanti ad un film perfetto? Certo che no, la perfezione è un criterio arduo da raggiungere ma si può certamente dire di essere davanti ad un film che ha raggiunto il suo scopo. Ed è qui che si può rispondere convinti alla domanda iniziale… sì, c’era bisogno di un altro film sul nazismo, perché di queste storie non se ne ha mai abbastanza, specialmente nel periodo che stiamo vivendo: l’unico modo per non dimenticare è continuare a raccontare e soprattutto lo si può fare con i bambini e per i bambini. E se lo si fa come lo ha fatto Taika Waititi a noi non può che andare bene.


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