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Call Me By Your Name: dalla pagina allo schermo

  • Immagine del redattore: Erica Yvonne Terenziani
    Erica Yvonne Terenziani
  • 29 mag 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

Prosegue l'analisi di uno dei film, a parer mio, meglio realizzati degli ultimi anni, o forse dovrei dire meglio trasposti cinematograficamente. Perchè è proprio di questo che andremo a parlare oggi: la trasposizione da libro a film.

Non perderti il primo capitolo dedicato a questa pellicola e clicca qui per leggere l'articolo "Call Me By Your Name: la regia invisibile di Luca Guadagnino".


Come già accennato, il film è la trasposizione cinematografica del romanzo Chiamami con tuo nome di André Aciman pubblicato per la prima volta nel 2007. Due realtà, queste, diametralmente opposte, il romanzo «racconta», il film «rappresenta», le quali implicano un diverso rapporto con il tempo e lo spazio.

La prima e significativa diversità tra i due riguarda il tempo di fruizione di un media rispetto all’altro: il lettore stabilisce da solo il tempo di lettura, mentre lo spettatore non può stabilire il proprio tempo di visione, il che lo rende meno libero, meno attivo del lettore. Il ritmo dettato dal testo filmico obbliga dei vincoli interpretativi che costringono lo spettatore nella irriproducibilità del testo e nella sua limitata durata. Come afferma Fabio Rossi (in Cinema e letteratura: due sistemi di comunicazione a confronto, con qualche esempio di trasposizione testuale), infatti, «non sarà difficile dedurre […] come il testo filmico sia un buon candidato alla ‘semplificazione’, ovvero alla facilitazione della fruizione per lo spettatore». In questo senso il film di Chiamami col tuo nome aumenta l’immediatezza: la pellicola è raccontata al presente, mentre il romanzo è un flashback nei tre quarti della sua interezza (raccontato in prima persona da Elio) e i sentimenti in esso raccontati sono influenzati dal passare del tempo, siccome raccontati più di vent’anni dopo. Questa scelta di raccontare al presente permette al film di basarsi su un’esperienza viscerale e visiva. Come i personaggi appaiono, agiscono e reagiscono sul momento, è da li che lo spettatore deve decodificare e percepire i loro non detti e invisibili pensieri, come inoltre spiega il regista in un'intervista per il New York Film Festival: «I try to rely on behaviours and the physical space where these behaviours happen». Un’altra grande differenza nella trasposizione sta nel fatto che il libro, dopo le vicende di quelle sei settimane insieme, si spinge oltre nei vent’anni successivi. Cosa che il film non affronta, ma si ferma all’inverno di quello stesso anno (1983).

Questo non è il solo motivo per cui il tempo del romanzo è sicuramente più dilatato rispetto a quello cinematografico, in alcune occasioni basti pensare alle lunghe descrizioni di ambienti o paesaggi, che in un film vengono ridotte ad una singola inquadratura, ed ecco un’altra delle differenze fra lo scritto di Aciman e la ripresa di Guadagnino, che va di pari passo con l’idea che «ciò che un romanzo può dire in un numero teoricamente illimitato di pagine, e con illimitate possibilità di rilettura e di riflessione, deve essere condensato in due ore di visione», aggiunge ancora F. Rossi. L’atmosfera della calda e lunga estate è stata però mantenuta nella versione cinematografica, poiché per tutta la prima metà del film si percepisce perfettamente questo lento trascorrere del tempo, in un’afosa estate italiana dove i pomeriggi sembrano non finire mai.


Anche per quanto riguarda lo spazio si avvertono notevoli differenze, in letteratura «si ha sempre a che fare con uno spazio aperto: la parola evoca un qui e un ora, ma tutto ciò che le sta d’intorno resta inesorabilmente indeterminato», al cinema invece i luoghi e gli spazi ci vengono palesati sullo schermo. «Lo spettatore vede solo ciò che la cinepresa ha già visto prima di lui: non ha da riempire alcun vuoto fisico, perché il luogo dell’immagine è già tutto occupato. Anche se poi, data la natura realistica del cinema, un ampio spazio interpretativo nasce proprio dal non mostrato [il ‘fuoricampo’], entro il quale […] si sedimentano il ritmo narrativo e quello emozionale.» Con questa affermazione di Aldo Viganò (da Dalla letteratura al cinema: problemi di trascrizione) ci si può riallacciare a come Guadagnino ha deciso di gestire la scena d’amore, una elegante e lenta panoramica che abbandona gli amanti per soffermarsi sull’inquadratura della pianta fuori dalla finestra della camera dove i protagonisti stanno consumando la loro prima notte insieme.

«Chiamami col tuo nome ha più a che fare con la fusione intima, non con la grammatica dei corpi. […] Ho pensato di cercare un posto dove ci siano dei testimoni ‘muti’ del fare l’amore […]. Diamo il nostro sguardo a loro. Ed è li che è nata questa panoramica, che non ha a che fare con la censura […], per me era fondamentale che gli amanti fossero fuori schermo nell’atto del loro amore perché quello che conta è che ‘tutto’ è amore in questo film.» Da un dialogo tra Luca Guadagnino e Natalia Aspesi (sala del Podestà di Palazzo Re Enzo, Bologna, 9 giugno 2018).


Frame dell’inquadratura fuori dalla finestra dei due amanti dove la panoramica termina.

Riguardo al tema dello spazio, tra le parole e le immagini troviamo altre significative differenze: le locations. Solamente un anno dopo la pubblicazione del libro di Aciman, Peter Spears e Howard Rosenman (produttori del film) stavano già lavorando alla stesura di una sceneggiatura e siccome la storia aveva luogo in Italia chiesero l’opinione di Guadagnino riguardo le possibili locations. Così quest’ultimo approcciò il libro di Aciman di primo acchito e prese parte a quella che al tempo era solamente una pre-produzione. Nel romanzo la vicenda si ambienta in una città di mare il cui nome viene abbreviato con ‘B.’, Guadagnino intuì che si trattasse della Liguria, in particolare della città di Bordighera, che però non ritroviamo nel film siccome la storia si ambienta tra Crema e la provincia bergamasca, locations che Guadagnino scelse una volta che da semplice consulente passò poi a produttore e regista del film. Come lui stesso conferma: «la pianura padana è uno shock dell’immaginario di Bertolucci e poi di Antonioni, io lavoro molto sull’assonanza […] tra la mia memoria cinematografica e ciò che è la realtà. Quindi tornare nelle terre piatte dei film di Bernardo per me era qualcosa di molto forte», da un dialogo tra André Aciman e Luca Guadagnino (Teatro Franco Parenti, Milano, 21 giugno 2018).


Elio e Oliver in bicicletta nella campagna Cremasca.

Ciò che invece si mantiene invariato nel passaggio da un media all’altro è l’inserimento dei personaggi all’interno di un luogo ben preciso.

Guadagnino prosegue, «La mia consapevolezza era che per raccontare quel tipo di personalità, di classe intellettuale, di classe sociale, bisognasse fare in modo che loro fossero naturalmente espressione di un luogo e che il luogo li rispecchiasse, più che appunto mettere in scena le diatribe intellettuali, perché al cinema quello è meno possibile.»


Alfonso Canziani in Film e romanzo afferma, «Non si deve dimenticare che la significazione nel film è l’esito di diversi elementi: la recitazione degli attori, gli spostamenti di questi e della ‘camera’, gli sguardi, l’angolo di ripresa. Il dialogo è uno di questi elementi. Altrettanto importante a volte, ma anche più importante quando si tratta di inscenare certi contenuti come i conflitti esistenziali, le nevrosi erotico-sentimentali […].»

Dalla messa in scena che Guadagnino sceglie appositamente per la scena in piscina, si scaturisce il dialogo dei due personaggi. Entrambi immersi nell’acqua, Oliver nuota mentre Elio trascrive musica a bordo piscina, lasciandosi scappare qualche sguardo verso Oliver. Il dialogo comincia quando quest’ultimo si avvicina ad Elio e gli chiede cosa stia facendo. Il regista mantiene per l’intera scena un’unica inquadratura, evitando sapientemente il campo-controcampo e posizionando gli attori in modo insolito, uno accanto all’altro, ma lasciando Timothée a favore di macchina. Questo permette al personaggio di Elio di nascondersi da Oliver, girando la testa dall’altra parte, allo stesso tempo permette allo spettatore di essere partecipe dei sentimenti e dei pensieri del protagonista, mentre Oliver ne è all’oscuro.


Inquadratura fissa del dialogo in piscina tra Elio e Oliver.

«È interessante osservare come il testo più facilmente fruibile, appunto quello visivo, sia anche quello che attiva un’intelligenza di tipo simultaneo, ovvero che combina contemporaneamente più livelli […], rispetto all’intelligenza sequenziale, attivata tipicamente dalla lettura […]. La maggior fruibilità del testo visivo rispetto a quello scritto e parlato ne ha fatto il miglior rappresentante della civiltà globalizzata, detta spesso, per l’appunto, ‘civiltà dell’immagine’.» (Fabio Rossi)


Per concludere, con una frase dello stesso Guadagnino (in un'intervista per il sito BAFTA Guru): I met Bernardo Bertolucci in 1996, […] and he said to me in this beautiful paradoxical way: “I never read scripts, even mine”. At that time I thought it was a way of being dismissive and not committed but I think first of all he was right and he was accurate. […] As a narrative tool [the script], the director has the need to learn it very deeply but at the same time to disenfranchise herself or himself from it, to kind of become autonomous from it because otherwise you risk the great danger of making injustice to a good script, which is to make it literal but as Rossellini said: “you have to leave the door of reality open on set”.


«Se è così, si conferma il dato di fatto che l’opera cinematografica più fedele al romanzo di riferimento è quella che ne tradisce la lettera per meglio conservarne il senso più autentico e profondo». Tullio Kezich diceva, riguardo alla trasposizione dalla pagina allo schermo: «più che la fedeltà, l’attendibilità culturale o il valore artistico della trasposizione cinematografica, contano l’alone che riescono a suscitare, la forza mitizzante che emanano, il fascino che esercitano sulle masse».

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