BlacKkKlansman: come affrontare il razzismo nel modo giusto
- Francesca Marchionno
- 12 giu 2020
- Tempo di lettura: 7 min
In questi giorni il tema del razzismo è, purtroppo, di nuovo molto presente nei discorsi di tutti. Si spera sempre che di certe cose non si debba parlare più, che alcune cose oramai siano consolidate e che non si debba ancora chiarire che siamo tutti uguali, che abbiamo tutti gli stessi diritti, che non importa quale sia il colore della nostra pelle perché siamo tutti “sulla stessa barca”. Ma a quanto pare non impariamo mai e invece di fare passi avanti, spesso, ne facciamo parecchi indietro.
Su La povera Olga noi discutiamo di film e quindi volevo, insieme a voi, riflettere sul singolare legame che il cinema, soprattutto quello americano, ha con il tema del razzismo e su come esso rifletta, come ogni arte che si rispetti, su quello che ci succede intorno. “La questione della razza” è presente fin dalle origini del mezzo cinematografico, in senso, però, negativo: l’esempio più famoso è sicuramente Nascita di una nazione di D. W. Griffith, fondamentale, certo, per lo sviluppo del linguaggio cinematografico, ma discutibile per i contenuti (è risaputo che addirittura riuscì a riportare in auge il KKK all’epoca della sua uscita). Ma non solo, il 75% dei film delle origini erano “anti-nero”. Nel film appena citato gli uomini di colore erano interpretati da bianchi truccati. Inoltre, le prime rappresentazioni di questa minoranza erano tutte più che stereotipate, giustificando una presunta superiorità bianca: lo schiavo “soddisfatto” della sua posizione, l’infelice uomo libero, il “negro” comico, il “negro” bruto, la domestica, il triste mulatto, l’esotico primitivo, ma soprattutto lo stereotipo per eccellenza, l’uomo nero che ha il ritmo e la musica nel sangue e che quindi è un cantante o ballerino o semplice intrattenitore.
Solo negli anni Quaranta l’industria cinematografica inizia a prestare attenzione alla questione del razzismo. E da lì in avanti le cose sono piano piano cambiate. Fino a qualche tempo fa l’idea di un uomo di colore che interpreta una qualsiasi figura divina era praticamente impensabile, ma adesso se qualcuno dovesse chiedervi come vi immaginate la figura di Dio sfido chiunque di voi a non pensare almeno per mezzo secondo a Morgan Freeman in Una settimana da Dio. Questo dimostra come, nel mondo, le cose siano certamente cambiate, per fortuna. Ma voglio farvi una domanda: secondo voi, quanto sono cambiate? O meglio, sono davvero cambiate? O il razzismo ha acquisito semplicemente un’altra forma? Per cercare di rispondere a queste non poco difficili domande voglio, oggi, prendere in analisi uno dei film, che, almeno a parer mio, negli ultimi anni è riuscito nell’impresa di parlare di questo argomento nel migliore dei modi: BlacKkKlansman di Spike Lee. Un film che ha fatto il giro del mondo, incassando di più 90 milioni di dollari (a fronte dei 15 di budget), che ha vinto diversi premi (tra cui la miglior sceneggiatura non originale agli Oscar del 2018 e il Gran Prix al Festival di Cannes). Basato su una storia realmente accaduta, questo film del 2018 racconta di Ron Stallworth, primo afroamericano che, nel 1979, entra a far parte del corpo di polizia di Colorado Springs e grazie alla propria audacia e all’aiuto di un suo collega caucasico, riuscirà ad infiltrarsi nel Ku Klux Klan.
Molte di quelle pellicole che trattano l’argomento razzismo si limitano a mettere in scena una storia che è sì potente, ma fermandosi a quello, come se bastasse. Invece Spike Lee, con BlacKkKlansman, confezionando una storia che si è già ampiamente inserita nella cultura contemporanea, torna a fare un film fortemente politico, che lascia molto spazio, più che alla immedesimazione, al pensiero critico. Già dalla prima scena, Lee porta l’attenzione dello spettatore alla rappresentazione della razza più che alla storia. Mostrando nel frattempo scene tratte da Via col vento prima e Nascita di una nazione poi, il personaggio interpretato da Alec Baldwin sembra promuovere qualcosa come uno spot per il KKK. Questo Uomo, però, non lo vedremo più per il resto della pellicola. Come spiega il professore Carl Plantinga: “We have not yet met any of the film’s major characters, and Beauregard will not reappear. Instead we get a Godardian, extra-diegetic, reflexive reminder that this film is part of a tradition of race representation in US film” – (Non abbiamo ancora incontrato i personaggi principali del film e Beauregard - Alec Baldwin – non apparirà più. Invece abbiamo un Godardiano, extra-diegetico e riflessivo reminder che questo film sia parte della tradizione della rappresentazione della razza nei film statunitensi). Subito dopo questa scena, inizierà la vera e propria storia. Vediamo Ron Stallworth (John David Washington) arrivare nel distretto, dove prima viene inizialmente messo a lavorare nell’archivio; quando riesce ad ottenere il ruolo di agente sotto copertura, viene inviato a partecipare ad un comizio sui diritti della comunità afroamericana tenuto dall’attivista Kwame Ture, come fosse quello il problema più grande. Ma dopo aver trovato un annuncio del KKK sul giornale, Ron attraverso delle telefonate dove si finge un uomo bianco riesce ad infiltrarsi nel Klan. Aiutato dal suo collega Flip Zimmerman (Adam Driver), che incontra i membri del KKK di persona, cercherà di indagare dall’interno per fermare alcuni attacchi programmati contro la comunità nera locale. Il punto forte della pellicola è la brillante scrittura. Attraverso le scelte di Lee, che comprendono elementi di forte ironia e satira, siamo messi di fronte ad una storia che riesce in modo intelligente ad amalgamare emozioni e ragionamento. Un concetto fondamentale per comprendere a pieno il film è quello della dialettica. Non si sviluppa una vera e propria empatia durante il corso del film, piuttosto le emozioni che proviamo sono filtrate dalla sensazione di dover andare più a fondo nella questione. La dialettica è il mezzo attraverso il quale riusciamo a restare leggermente distanti dalla storia per poterla analizzare meglio. La contrapposizione è presente ovunque: non abbiamo un singolo punto di vista. Centrale è la questione della doppia identità dei due protagonisti e soprattutto l’inconciliabilità che lo stesso Ron vive, essendo un uomo nero favorevole alla ribellione della sua comunità ma che contemporaneamente vuole essere un poliziotto, figura mal vista dal “popolo nero” per via dei soprusi subiti. Questo consente a noi spettatori di fare sempre un passo indietro, permettendoci di riflettere, di sviscerare la questione e comprenderla in toto.
Simbolica è, però, la fine. Ed è qui che possiamo tornare alle domande iniziali. Con non poche difficoltà, Stallworth e Zimmerman riescono a sventare l’attacco terroristico e molti membri del Ku Klux Klan vengono incastrati. Dopo tanta tensione, quindi, si può finalmente festeggiare. Tutto sembra andare bene, i buoni hanno vinto e i cattivi sono stati sconfitti. Qualsiasi altro regista avrebbe fatto finire il film così: il lieto fine che lascia speranza per un mondo migliore. Qui invece Lee decide di sbatterci la porta in faccia e di farci parecchio male. Perché il mondo non è così, non è un sogno, la realtà è ben diversa e infatti è proprio con delle immagini di vita vera che Lee decide di concludere il suo film. Ron Stallworth si ritrova con il budget tagliato e con l’ordine di eliminare le prove del caso. Distrutto, decide comunque di non mollare il corpo di polizia. Ma la sera stessa, sotto casa, riceverà la visita più brutta di tutte: dopo tanto lavoro, si ritrova davanti la finestra la classica scena della croce bruciata, come a far capire che, anche se poteva sembrare, nulla è cambiato. Ma non è finita qui. Come se il tempo non fosse mai passato, veniamo catapultati nel 2017, a Charlottesville, dove proteste contro i suprematisti bianchi vengono contrapposte a quelle dei neonazisti, assistiamo all’attacco in auto di James Alex Fields Jr durante il quale la giovane Heather Heyer, ragazza che protestava pacificamente per l’uguaglianza, ha perso la vita. Ascoltiamo David Duke, ex gran maestro del KKK, in un comizio dove si sente legittimato a parlare in un certo modo per via di alcuni discorsi dell’attuale presidente degli Stati Uniti. E poi gli ultimi veri frame: la bandiera statunitense sottosopra che man a mano sfuma verso il bianco e nero. Già questo non avrebbe bisogno di molte spiegazioni. Dopo più di due ore di film credi che finalmente tutto sia tornato al suo posto e invece alla fine ti ritrovi davanti allo schermo basito e senza parole, svuotato di qualsiasi emozione positiva. Soprattutto se ti soffermi sulla data. È per questo che BlacKkKlansman è il film perfetto per sensibilizzare sull’argomento. Tanti sono i film al giorno d’oggi che parlano di razzismo o di supremazia bianca, ma pochi ci riescono come ha fatto il film di Lee, arrivando a tutto quel pubblico. BlacKkKlansman riesce nell’impresa di far incontrare il cinema di largo consumo e quello autoriale e più impegnato. E lo fa lasciando allo spettatore la possibilità di riflettere su quello che sta guardando. Non siamo davanti ad un film che semplicemente mette in scena una storia strappalacrime che fa soltanto emozionare e non consente una ponderazione. Un mix di emotività e riflessione, viene schierata una squadra di provocazioni, domande e contraddizioni che portano inevitabilmente a meditare su quello che si è appena visto. A me è capitato di pensarci per giorni. Non è un semplice film di intrattenimento, tantomeno di puro impatto emotivo: la scelta di lavorare con una storia vera non deve essere un caso, Lee vuole metterci davanti al problema, sbatterci in faccia quanto quelle ideologiesiano ridicole e folli e quanto, allo stesso tempo, sia facile diventarne prigionieri.
Qualche libertà Lee se la prende: per esempio, prima del crudo finale, Ron sbatte in faccia la verità a David Duke prendendolo palesemente in giro. Poi però bisogna concludere l’illusione e tornare alla realtà dei fatti.
Il cinema riflette da sempre sulla natura dell’uomo e quello che Spike Lee fa con BlacKkKlansman è emblematico. Questo film è un’occasione di insegnamento, vuole includere il pubblico per farlo arrivare all’idea che purtroppo c’è ancora molta strada da fare. La conquista che i nostri protagonisti raggiungono ad un certo punto della storia è soltanto la vittoria di una battaglia e, purtroppo, questo non è spesso sinonimo della vittoria della guerra. La metafoa forse non è delle migliori, il concetto di guerra è orribile tanto quello di razzismo. Eppure, sono due cose con le quali dobbiamo avere a che fare tutti i giorni. È molto bella la risposta che tutto il mondo sta dando in questi giorni rispetto agli avvenimenti accaduti negli Stati Uniti, ma fino a quando una singola persona crederà di essere migliore di un'altra grazie al suo colore della pelle, tutto quello che abbiamo fatto, tutti traguardi raggiunti, non saranno stati sufficienti. Credo, però, che l’arte, soprattutto quella simile al lavoro di Lee con BlacKkKlansman, sia il mezzo più corretto per far passare il giusto messaggio. E fino a quando avrò respiro, questo sarà il mio modo per combattere la discriminazione. Black lives matter.
Francesca, dovremmo riuscire finalmente a capire che la bellezza e la forza propulsiva dell'umanità sta nella vastità delle individualità, di persone e di razze. Il punto è che dovremmo avere tutti gli stessi diritti, le stesse aspettative di vita, le stesse garanzie di giustizia sociale. Le stesse possibilità di evoluzione culturale. Mi chiedo: i neri d'America hanno avuto le stesse possibilità di evoluzione dei bianchi? E in quale arco di tempo, quante generazioni sono state sacrificate (schiavizzate) prima di vedere le successive salire di un solo gradino della scala sociale? Siamo perennemente in ritardo con il pensiero progredito: capiamo solo domani gli errori di oggi, e seppure. Altrimenti dopodomani! È un incomprensibile difetto mentale, un biologico nodo gordiano! Credo che…