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Rian Johnson l’ha fatto di nuovo! - Knives out – Cena con delitto

  • Immagine del redattore: Francesca Marchionno
    Francesca Marchionno
  • 15 mag 2020
  • Tempo di lettura: 3 min


Che Rian Johnson sia un regista molto capace a cui piace giocare con i generi e i loro stilemi o con le storie consolidate ce lo aveva già ampiamente dimostrato con il suo capitolo di Star Wars, Gli Ultimi Jedi, purtroppo da molti bistrattato (ingiustamente dal mio punto di vista e chissà magari un giorno ne parlerò meglio). Ma pare che con questo Knives Out – Cena con delitto sia riuscito a mettere d’accordo un po’ tutti.

Harlan Thrombey, famoso scrittore di romanzi gialli, viene ritrovato morto nella sua casa. Le circostanze fanno inaspettatamente pensare ad un suicidio, ma molti sono i dubbi legati a quanto è successo. Innanzitutto, la sera prima, Thrombey aveva festeggiato il suo ottantacinquesimo compleanno con la sua numerosa e bizzarra famiglia. Elemento che porta con sé non poche domande per l’investigatore privato Benoit Blanc, chiamato ad indagare da un cliente anonimo, altro elemento molto singolare. Inizierà così una storia che all’apparenza potrà risultare l’ennesimo racconto giallo, già sfruttato in lungo e in largo dal mezzo cinematografico e non, e a cui noi tutti siamo già abituati. Ma è proprio qui che Johnson ci fa la beffa.



Un cast corale di tutto rispetto, fatto di grandi attori di diverse età, che riesce a donare varie sfumature alla storia che passo dopo passo nasconde numerose sorprese. Il regista gioca con lo spettatore attraverso il classico giallo riscrivendo un enigma della camera chiusa, creando, però, qualcosa di innovativo. Johnson rende chiaramente omaggio alle storie che sono venute prima del suo Knives Out, lo fa però riuscendo a dare nuova linfa al genere contestualizzando la storia a quello che è il mondo oggi, rendendo contemporaneo e “fresco” un qualcosa che forse era ormai diventato prevedibile.

Vengono rimaneggiati i cliché del genere whodunnit (termine inglese che sta a indicare, appunto, l’insieme delle storie sul giallo deduttivo e che viene dalla contrazione dell’inglese “Who has done it?”, in italiano “Chi l’ha fatto? Chi è stato?”) grazie alla brillante sceneggiatura - che è anche valsa a Johnson la sua prima nomination agli Oscar - e alla varietà di personaggi dipinti in questa pellicola. Sopra tutti l’investigatore privato, Benoit Blanc: Daniel Craig ci dona una delle sue migliori interpretazioni, rielaborando, anche qui, con molta ironia, tutte quelle figure di investigatori che sono venute prima di lui. Quasi una parodia, ma tratteggiata in modo infallibile, che da un’identità tutta sua a questo nuovo personaggio.



L’ironia è una caratteristica fondamentale che pervade tutta la pellicola, anche con gli altri componenti della famiglia. Difatti, la cosa che mi ha colpito di più è che Johnson riesce a modellare a suo piacimento la storia donandole toni da commedia, senza però dimenticare la suspense degna dei migliori racconti gialli. La trama si snoda quasi in direzione opposta rispetto alle tendenze cementate dai classici in tutti questi anni: lo spettatore può trovarsi sconvolto sulle prime, poi può credere di aver capito cosa stia in realtà accadendo ed è lì che la storia prende di nuovo tutta un’altra piega.



Un film che riesce molto ad intrattenere e a coinvolgere, grazie anche a dei colpi di scena difficilmente intuibili. Non mancano le risate e l’assurdo, che vengono fuori soprattutto grazie alla caleidoscopica famiglia Thrombey. Ed è proprio grazie a loro che arriviamo alla caratteristica più forte della pellicola: il sottotesto politico che pervade tutta la storia. Marta Cabrera è la protagonista della storia, è in tutto e per tutto il centro della questione. È l’infermiera personale della vittima, ma viene trattata quasi come se fosse una di loro (specialmente dallo stesso Harlan), legalmente immigrata ma figlia di una donna entrata in modo illegale nel paese. La famiglia Thrombey sembra quasi un piccolo universo che sta a ricreare l’America stessa e Marta è il fulcro del discorso. Tutta la questione suicidio/omicidio potrebbe diventare secondaria se ci si sofferma su quello che è il messaggio che Johnson vuole far passare. In modo elegante e intelligente, attraverso il tema dell’immigrazione, Johnson riflette sull’America dei giorni nostri e crea, in modo poco velato, una pellicola fortemente anti-trumpista. Emblematico è il discorso attorno all’eredità, altro cliché reinterpretato in maniera eccellente, ma soprattutto il finale molto potente. Johnson confeziona, quindi, una storia che credo sia destinata a far parlare di sé a lungo. Una regia pulita, senza particolari guizzi, ma precisa e diretta. Si gioca molto con i volti dei personaggi e con i dettagli della casa, con una fotografia che riesce ad amalgamare toni caldi e toni freddi che rendono il tutto ancora più stimolante.

Insomma, si tratta a parer mio di uno dei film più interessanti che siano stati rilasciati nel 2019. Johnson riesce a dimostrare, aggiungo io nuovamente, di essere uno dei registi più abili e interessanti in attività in questo periodo e non vedo l’ora di gustarmi la sua prossima rielaborazione.

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