top of page

Call Me By Your Name: la regia invisibile di Luca Guadagnino

  • Immagine del redattore: Erica Yvonne Terenziani
    Erica Yvonne Terenziani
  • 17 apr 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 23 mag 2020

«Quando meno te lo aspetti, la natura è molto abile a scovare i nostri punti deboli», è proprio questo quello che Chiamami col tuo nome fa nei confronti dello spettatore. Scava nel profondo, nella sensibilità e nella memoria di chi guarda, celebrando e mostrando l’amore, così com’è, nella sua accezione universale; non lascia lo spettatore scappare dalle proprie emozioni, lo costringe nel viverle pienamente, risvegliando in lui una nostalgia e uno spaesamento che non credeva di ricordare. Nato dalle parole di André Aciman (autore dell’omonimo romanzo), Chiamami col tuo nome trova incredibile successo anni a venire (2017) con la pellicola di Luca Guadagnino.

Il film ha incassato un totale di 41.887.595 dollari a seguito di un budget iniziale di "soli" 3.500.000, il quale, sebbene per l'Italia non sia affatto un basso budget, può invece essere considerato "limitato" rispetto ai canoni internazionali, perchè come Guadagnino stesso afferma: «non è accurato dire che il film è stato finanziato all'80% dal capitale italiano perchè è una coproduzione italo, franco, brasiliana».

Nonostante quindi il "basso" budget, cosa che normalmente spinge all’utilizzo del digitale e riguardo cui il regista si esprime dicendo: «penso che sia pigrizia, una falsa ideologia delle produzioni che dicono di non girare in pellicola perché è meno dispendioso con il digitale», per la realizzazione di Chiamami col tuo nome Guadagnino e il direttore della fotografia, Sayombhu Mukdeeprom, hanno comunque optato per la pellicola 35 millimetri, utilizzando soltanto una lente 135 millimetri. Il "limite" del non poter intercambiare obiettivi focali imita l’occhio umano che anch’esso non può coprire diverse prospettive allo stesso momento, come spiega il regista «only one lens for everything, [...] I wanted semplicity, I wanted it to be straightforward, I didn’t want to ‘create’ technology in between the camera and the performancers».


Fatta questa doverosa introduzione si può passare al dunque.

Quando non attua piccoli movimenti la macchina da presa è spesso fissa e le scene si svolgono all’interno di un’unica inquadratura. Oltre appunto all’utilizzo della singola lente per la ripresa dell’intero film, questa scelta registica riflette un suo possibile significato sull’intimità che si lascia ai personaggi sullo schermo, quasi come se non ci fosse un’audience a disturbarli. Allo stesso tempo però non si percepisce nemmeno la presenza della macchina da presa tra i personaggi e il pubblico, il filtro stesso del cinema cade e lo spettatore si ritrova immerso all’interno di una storia che sembra svilupparsi da sola di fronte alla camera. Ecco perché quella di Luca Guadagnino è un regia che non vuole quasi farsi vedere, discreta e riservata nella sua precisione.

L’audience non viene mai risparmiata dal disagio di Elio, o dal dolore e la bellezza di quello che ha vissuto, colpendo in modo profondo e personale, in una partecipazione di emozioni. Chiamami col tuo nome termina con una lunga e fissa inquadratura di Elio davanti al fuoco del camino mentre esterna il suo dolore, senza però il tentativo di allontanarsi da esso. Allo stesso modo la cinepresa si rifiuta di distogliere lo sguardo da ciò che non sia il suo viso, quasi costringendo per l’intera sequenza lo spettatore a provare con lui il suo dolore. Ed è a questo punto che compare il titolo, annunciando che l’intero film è stato in realtà un’introduzione, un preludio ad una presa di coscienza. Per tutta la storia di questo giovane e intenso amore, tra Elio e l’americano studente laureando di suo padre Oliver, il regista porta comunque avanti la stessa filosofia della scena finale: la filosofia del non scappare dalle proprie emozioni. Attraverso lo stile stesso di ripresa il film non permette allo spettatore di scappare da quello che sta vedendo e provando, nemmeno quando è specialmente scomodo. Non può andarsene quando Elio sta sperando che Oliver entri nella sua stanza ma lui non lo fa, o nemmeno nel momento intimo della pesca quando più tardi deve subire la vergogna di Oliver mentre scopre il frutto. O quando ancora sulla scena dell'addio Elio chiama sua madre dal telefono della stazione sull'orlo di una crisi che scoppia dopo poco in macchina, anche in questo caso il protagonista, come chi guarda, è costretto a vivere, ad osservare, a sopportare.


Nella scena chiave, che ha luogo nella piazza del paese, quando Elio sta finalmente provando ad ammettere i suoi sentimenti ad Oliver, la cinepresa è stranamente lontana dai personaggi, invece di avvicinarsi per quell’intimo momento come ci aspetteremmo, esattamente come i personaggi stessi sono scomodamente lontani l’uno all’altro in un luogo pubblico e in un momento così privato. «In this moment there has been a sort of dance of desire between these two boys that has grown through the film until in this very scene, finally they have found the time to be together alone and to try to find a way to talk to one another» specifica Luca Guadagnino in un'intervista per il sito The New York Times.

All’inizio del piano sequenza, Elio e Oliver non trovano le parole per comunicare ciò che provano, simboleggiato dalla distanza fisica. Verso la fine del piano sequenza invece, la distanza fisica tra i due protagonisti si riduce, come a sua volta anche quella mentale.

L’impossibilità che i due protagonisti hanno di parlare raggiunge quindi il suo apice in questa particolare scena, in piano sequenza, che li vede impegnati in una danza, come la definisce il regista «I changed the idea that that was supposed to be a conversation piece into a dance, [...] they dance around each other through the space and the space is helping them to be frank to one another, [...] everything is participating to that moment with them». Ed è chiaro che la distanza che li divide, simboleggiata fisicamente dal monumento della Prima Guerra Mondiale al centro della piazza, sia la distanza necessaria che i due devono coprire per arrivare ad unirsi, fisicamente all’interno dello stesso piano sequenza e mentalmente per ciò che succederà poco dopo.



Chiamami col tuo nome è il terzo capitolo della trilogia del desiderio di Luca Guadagnino, con I am Love e A Bigger Splash. Come conferma il regista: «In a way there is something that unified these three films, at the beginning I thought it was another movie about rich foreign people lounging in the italian summertime [...] but desire in a way is the force that motivates the characters. What was interesting for Call Me By Your Name was that in this case the possibility of a distracting force that comes with desire wasn’t there. What was there was knowledge, was the capacity of becoming someone that grows into a new person».

Guadagnino termina così la sua trilogia su una dolce nota di auto conoscenza. Il titolo che compare sul finale è un affermazione per cui Elio, per quello che ha provato e sentito quell’estate, ora è finalmente se stesso. Nel monologo del padre si articola magnificamente la filosofia che corrisponde all’estetica del film, il non scappare dalle emozioni, «we rip so much of ourselves to be cured of things faster, that we go bankrupt by the age of thirty and have less to offer each time we start with someone new. But to make yourself feel nothing so as not to feel anything - what a waste!». Lo spettatore è partecipe di questa conversazione, realizza che ciò è comune a tutti e questo consiglio risveglia in lui una rinnovata determinazione nell’affrontare la vita, come essa si presenta.


«Qualcuno mi ha chiesto se non pensassi che il finale del film fosse troppo triste, e invece è proprio un finale gioioso perché Elio diventa un uomo» racconta Guadagnino. Quindi se c’è qualcosa che questo film insegna, è che non bisogna scappare dalle emozioni, perché se si provano quei sentimenti significa che c’è vita, come il padre di Elio conferma: «Right now there’s sorrow. Pain. Don’t kill it and with it the joy you’ve felt».



Comments


  • instagram

©2020 di La povera Olga. Creato con Wix.com

bottom of page