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“Even I didn’t know if I really existed”: Joker e la danza di Arthur Fleck

  • Immagine del redattore: Daniela Pellacani
    Daniela Pellacani
  • 8 apr 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

Gentili lettori, io sono Daniela e questa è la prima delle mie opinioni non richieste.

Oggi parliamo della danza di Arthur Fleck nel film Joker di Todd Phillips, 2019. Sia Phillips che Joaquin Phoenix (protagonista) in varie interviste hanno affermato come il personaggio di Arthur sia “impregnato” di musica; questo ci spiega le scelte fatte in fase di produzione del film riguardo alla presenza della danza (fatta di vere e proprie coreografie programmate e di straordinarie improvvisazioni). Ma ciò non basta a spiegare l’impatto che ha provocato nello spettatore. Perché quella danza, che non ha nulla di spettacolare, in un lurido bagno pubblico, ci è rimasta impressa nella memoria?

Vi propongo la mia risposta.


Guardiamo alla scena: Arthur (badate bene, non è ancora Joker!) ha appena ucciso tre uomini (se i primi due per autodifesa, il terzo è un gesto di accanimento) e corre disperatamente lungo le strade di Gotham, fino a rifugiarsi in un bagno pubblico. Piccola nota: entra in un bagno perché nella sceneggiatura originale era previsto che qui si struccasse e cambiasse, per far sparire le prove di quanto accaduto. Riflesso nello specchio lo vediamo che chiude la porta. È uno spazio angusto e sporco. L’inquadratura va vicina al volto di Arthur, ancora truccato e ansimante, e cogliendone la tensione delle braccia inizia a seguire l’impercettibile movimento del suo corpo, che sfocia in un passo del piede destro, su cui lentamente si incrocia la gamba sinistra (vediamo le scarpe rovinate, i calzini bianchi sulle caviglie sottili, l’orlo consumato dei pantaloni troppo corti); l’inquadratura risale a raccogliere il particolare di una mano e il movimento delle braccia, con una brevissima stasi sul viso, che ruotando porta con sé il corpo e la camera da presa, che di nuovo si lascia afferrare dal lento vortice delle mani che sorvolano il viso rivolto verso l’alto, in un delicato cambré; la camera si sofferma sul volto, mentre Arthur si raddrizza e ruota, raccordando una nuova inquadratura: la mezza figura, vista leggermente dal basso, si muove nello spazio, prende possesso dell’angusto bagno con i movimenti delle braccia e del busto, lo domina. Di nuovo la camera si allaccia al movimento di Arthur, alle sue mani e braccia, mantenendo nell’inquadratura lo specchio del bagno (introdotto nell’inquadratura precedente, ma che ora assume importanza) in cui, mentre Arthur allarga le braccia, compare per la prima volta quella parte di sé che avrà il nome di Joker. Il tutto, accompagnato dal violoncello di Hildur Guðnadóttir (compositrice della colonna sonora originale). La scena successiva vede Arthur rientrare nel proprio palazzo con fare deciso e cupo.



Questa sequenza di danza è stata improvvisata da Phoenix sulla musica, scritta dalla compositrice islandese a partire dalle suggestioni della sceneggiatura, quindi in pre-produzione: Phillips ha utilizzato più volte nel corso delle riprese le sue musiche sul set, perché queste influenzassero attivamente e fossero parte dell’atmosfera, della storia, parte di Arthur.


Ciò che vediamo in quel bagno è Arthur che attraverso la sua danza riprende il possesso del proprio corpo. Un’affermazione apparentemente banale, ma il corpo (si potrebbe parlare di corpo-mente) è il primo veicolo delle nostre relazioni con il mondo e quindi ne è specchio; il corpo di Arthur è continuamente vessato, dalle privazioni e dalla violenza fisica degli altri (Arthur è oggetto di violenza per ben tre volte nel corso del film, quattro se si considera anche il racconto delle violenze da bambino), al punto che non è in grado di controllarlo appieno: la sua risata è segno di un disturbo psicosomatico che gli rende impossibile una comunicazione chiara verso l’esterno – ride quando ha paura, quando è in ansia o esasperato; arriva al punto da non sapere quando è il caso di ridere (si veda la scena in cui è seduto tra il pubblico al locale di stand up comedy). La prima scena del film è letteralmente Arthur che tenta di obbligare il proprio viso a sorridere. Eppure, quando danza, Arthur pare essere nel pieno controllo di sé, un performer notevole, fiducioso nel proprio corpo e in ciò che fa.

Guardiamo brevemente a cosa viene prima di questa scena. A inizio film Arthur ci è presentato nei panni di Carnival, un clown danzante, mentre fa roteare con una certa abilità un cartello tra le mani per pubblicizzare un negozio di musica. Ci viene chiaramente detto che la danza è parte del personaggio. Per questo non ci sorprende vedere Arthur, nella sua magrezza (valorizzata dalla capacità di Phoenix di dare plasticità al proprio corpo, per farvi spiccare le ossa del costato), nello spazio angusto e squallido del salotto di casa, danzare sinuosamente, muovere il proprio corpo di emarginato con sicurezza (quasi con superbia). Quando Arthur danza, il corpo è suo.


Facciamo un passo ulteriore: nel bagno pubblico, mentre danza, Arthur non solo si riprende il proprio corpo, ma si riprende anche quella parte della sua identità, quella frustrata e violenta, che fino a quel momento è rimasta latente (emerge brevissimamente quando, dopo essere stato ripreso per aver perso il cartello, lo vediamo in un vicolo prendere a calci qualcosa, o qualcuno). Sarà a quella parte di sé, a quel volto nello specchio, che Arthur darà il nome di Joker.

Spostiamoci infatti verso la fine. Oltre la danza nel bagno pubblico. Di nuovo in un bagno, di nuovo di fronte a uno specchio, Arthur si trasforma. Come a inizio film, si sta preparando ad essere un clown e questa volta non Carnival, ma Joker, nato in quella che (parafrasando le sue battute nel film) "pareva essere una tragedia, ma è invece una commedia”. Senza entrare troppo in merito alla questione, mi preme sottolineare l’importanza per un attore del momento della preparazione, che comprende il trucco e la "vestizione" (e questo è vero per svariati metodi attoriali, anche in diverse culture): Arthur sta diventando completamente Joker, tanto che quando lo vediamo nello show di Murray Franklin non sapremmo distinguere dove finisca Arthur e inizi Joker. Che questa sia una vera e propria muta ce lo testimonia il fatto che avviene attraverso la danza, attraverso il possesso del proprio corpo. Arthur ha incorporato Joker, capace tanto di azioni terribili (si vendica brutalmente di Randall) che di affetto (bacia sulla fronte Gary). Questo contrasto era già emerso nella sequenza che comprende gli omicidi nella metropolitana e la danza nella toilette pubblica: dal movimento di Arthur traspare una certa delicatezza, un garbo, quasi una dolcezza di spirito, che contrasta nettamente con la brutalità e la concitazione dell’azione precedente.

Arriviamo così alla danza sulle scale, diventata iconica. Introdotta dal pezzo Rock and roll part 2 di Gary Glitter, la scena è ripresa quasi interamente dal basso: Arthur è su un palcoscenico, in posizione dominante, è un performer in mezzo alla cruda realtà e noi siamo spettatori. L’iconicità di questa scena dipende in parte dal fatto che è un momento iconico per Arthur stesso: nel corso del film l’imporsi di canzoni è quasi sempre segno di una fantasia di Arthur e in questo momento, nei panni di Joker, nei propri panni, si sente potente. Su una serie di calci si inserisce nuovamente il violoncello di Guðnadóttir, passando da una sonorità energica e “fashion” ad un’atmosfera cupa, scura, che sa di irrimediabile: non stiamo più guardando (ascoltando) la scena con gli occhi di Arthur. È proprio in questo momento, dopo questa transizione, che compaiono nell’inquadratura le silhouette di altre persone (i due agenti di polizia incaricati di indagare sugli omicidi nella metropolitana), intrusi nel delirio di potenza di Arthur, che lo interrompono.

Questa coreografia è stata preparata da Phoenix assieme al coreografo Michael Arnold e su ammissione dell’attore si ispira in particolare a Ray Bolger nel video di The old soft shoe, in cui ritrova una certa “arroganza” che immagina essere propria di Joker stesso, e alla disco dance. È evidente il carattere molto più cool di questa danza rispetto a quelle precedenti (mentre danza fuma con nonchalance una sigaretta): Arthur ha già inglobato Joker, ora è un performer a tutti gli effetti e quello è il suo momento di gloria.

Quella qualità di danza intima e profondamente corporea riemerge, sempre accompagnata dal violoncello, mentre Arthur aspetta di entrare in scena al programma di Murray Franklin, che di nuovo manda in onda il video della serata al club, che di nuovo lo ridicolizza: per un momento, Arthur deve controllare che il suo corpo sia ancora lì, che il suo potere sia ancora lì. E quando è il momento di entrare, Joker è pronto. Meriterebbe una trattazione a parte l’ingresso di Joker in studio, scena il cui svolgersi è stato improvvisato da Phoenix, che ne ha fornito svariate versioni (visibili su youtube).

Siamo al termine del film, Arthur è stato arrestato, ma l’auto della polizia è investita dalla rivolta popolare. Di nuovo ferito, di nuovo inerme, Arthur viene estratto dall’auto con delicatezza. Quando riprende conoscenza e si alza sul cofano dell’auto distrutta, ennesimo palcoscenico, danza di nuovo in mezzo alla folla feroce che lo acclama: ha finalmente il suo pubblico. Non deve più sforzarsi di sorridere, gli basta disegnare un sorriso col sangue. Infine apre le braccia verso la folla, come nel bagno pubblico e la camera da presa si allontana.

Si arriva a quella sequenza finale che è difficile definire, che si apre con la risata di Arthur e che conclude il film proprio con la danza, lo stesso glorioso e arrogante ballo fatto (o immaginato, a seconda di come leggiamo questo finale) sulla scalinata.


È innegabile che la forza di queste scene dipenda direttamente dalla performance attoriale di Phoenix, la cui presenza è stata così forte da “bucare lo schermo” e arrivare fino al corpo del pubblico (che, è giusto ricordarlo, non è mai spettatore completamente passivo), e che Phillips e collaboratori hanno trattato con intelligenza, riuscendo a valorizzarla appieno; basti come esempio la descrizione che abbiamo fatto della scena nella toilette.

Riprendiamo la domanda iniziale: perché quella scena ci è rimasta dentro? Perché Arthur danza e si riprende sé stesso.

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