Lazzaro è “stùpido”
- Stefano Terenziani
- 3 apr 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 4 apr 2020
• stùpido agg. [dal lat. stupĭdus, der. di stupēre «stupire»]
Nell’uso comune, che ha, o mostra, scarsissima intelligenza, lentezza e fatica nell’apprendere, ottusità di mente, usato spesso come insulto. (cit. Treccani)
Nella etimologia del termine, nella sua radice e nel suo uso comune odierno, c’è tutta la felice intuizione di Alice Rohrwacher, autrice di un film decisamente tra i migliori che la cinematografia Italiana ha prodotto negli ultimi anni, Lazzaro Felice, film che ha giustamente raccolto diversi premi nel mondo, a partire da Cannes con il premio alla miglior sceneggiatura.
Un film che andava presentato alla corsa per gli Oscar come miglior film straniero, e che colpevolmente la commissione dell’ANICA incaricata della selezione ha ignorato.
Ma torniamo al film, Stùpido come stupore è Lazzaro, stupore come l’etimo arcaico della parola, quello che si prova davanti ad una natura incontaminata, alla meraviglia della vita, che è come appare, pulita e innocente come il volto del protagonista, uno straordinario Adriano Tardiolo, esordiente, un vero capolavoro del casting, il suo volto è innocente,
i suoi occhi parlano all’obbiettivo.
Lazzaro è buono e felice, lo sembra, lo è davvero, è senza pensieri.
Vive in una comunità di contadini, chiamata “Inviolata” a richiamare quella natura antica da cui tutti veniamo.
Dalla comunità di suoi pari è trattato da stupido, senza intelligenza, sfruttato dagli sfruttati, a lui toccano i lavori più pesanti e umili, che lui sempre accetta di fare senza provare rancore per nessuno.
Solo Antonia lo tratta con rispetto, interpretata magnificamente sia da giovane da Agnese Graziani, che da adulta dalla sorella della regista, Alba Rohrwacher.
Il film inizia con una serenata, sembra un documentario, tutto il realismo possibile, ed è impossibile non pensare ai contadini di Olmi, indefinibile l’epoca, forse prima della guerra?
Scopriremo poi essere gli anni 80/90, i contadini sono veri e propri servi, al servizio della marchesa De Luna, e grazie all’isolamento imposto dal crollo di un ponte che li collega alla “civiltà” non sanno della fine della mezzadria. La Marchesa Alfonsina De Luna così, tenendoli nel medioevo rurale, ne trae tutto il vantaggio.
La Marchesa è interpretata da Nicoletta Braschi, unico neo del cast a mio parere, mentre tutti gli altri dai contadini fino al “ragioniere” della Marchesa, interpretato da un perfetto Natalino Balasso, sono completamente nella parte.
Lei e il figlio arrivano nella tenuta per una vacanza estiva, il figlio Tancredi, viziato e voglioso di staccarsi dalla sua di realtà, diventa la prima vera amicizia di Lazzaro.
La narrazione trasforma lentamente il documentario in un racconto di fantasia sempre più accentuato, fino alla “fiabesca” separazione dei due amici, l’arresto della Marchesa per sfruttamento dei poveri contadini e il trasferimento di quest’ultimi nella “civiltà” a loro sconosciuta.
Un salto temporale di 30 anni circa ri-porta Lazzaro, sempre se stesso nel corpo e nell’anima, alla ricerca della sua comunità, iniziando un viaggio rocambolesco dalla tenuta fino alla città, dove ritrova da prima Antonia e poi tutti gli altri, “rifugiati” nella periferia di una città indefinita, incapaci di procurarsi il sostentamento come quando erano contadini, vivono di piccoli espedienti, compreso il furto.
Sradicati da un passato miserabile ma dignitoso, ora ad un presente solamente misero, per loro non c'è progresso, nonostante siano circondati da palazzi, ferrovie, strade, cantieri. Tutti insieme vanno alla ricerca di Tancredi e si scopre che anche lui ha perso tutto, la banca si è presa tutte le ricchezze della Marchesa.
Lazzaro in un finale struggente si reca in banca nel tentativo di far restituire il denaro al suo amico Tancredi. Qui in una potentissima metafora, nessuno riconosce il “santo Lazzaro”, ogni umanità è persa e con essa la capacità di vedere il buono e l’innocente, completamente distaccati dalla natura e da noi stessi ci scagliamo su tutto quello che è diverso da noi.
Un finale stupendo per un film riuscitissimo, capace di raccontare la “santità” del protagonista con una semplicità “Francescana”, come il lupo che ci accompagna ai titoli di coda, il lupo che trovate alle spalle di Lazzaro nello splendido dipinto usato per il manifesto del film. Ecco che anche nel manifesto il film si caratterizza per la sua originalità, in un epoca dove l’immagine fotografica di una scena viene utilizzata per il poster, qui si è scelto di affidare ad un artista la creazione di un'immagine originale, evocativa, capace di avere in se la forza intera del film e del suo protagonista.
In quel dipinto si vede, si avverte, la “Santità” di Lazzaro, se non fosse per i palazzi sullo sfondo potrebbe essere benissimo l’affresco di una chiesa medievale, il ritratto di un San Francesco senza saio e del suo lupo.
Lazzaro è Santo perchè incapace di fare male, incapace di riconoscere il male perfino quando gli viene fatto. Dice la regista: “Lazzaro Felice è la storia di una piccola santità senza miracoli, senza poteri o superpoteri, senza effetti speciali: la santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani. Racconta la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta e li interroga come qualcosa che poteva essere e non abbiamo voluto. È un manifesto politico, è una fiaba sulla storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni, è una canzone.”
Il cinema permette di piegare il tempo e Alice Rohrwacher consapevolmente ne approfitta per raccontare una fiaba moderna e antica insieme, la semplicità con cui mette in scena il testo, i personaggi, il paesaggio (naturale e urbano) è impressionante.
Insieme al già citato Olmi, il registro narrativo ricorda pure Pasolini, Bertolucci di Novecento, ma anche il cinema di Sergio Citti, che di Pasolini era allievo, per quelle non poche strambe situazioni che strappano un sorriso. Questo senza però perdere mai il personalissimo stile che Alice Rohrwacher aveva già dimostrato nei film precedenti, uno stile che fa di Alice una delle autentiche promesse/mantenute del nostro nuovo cinema, anche a parere di Bong Joon-ho, neo trionfatore all’ultima edizione dei premi Oscar, che intervistato da “Sight & Sound”, celebre rivista cinematografica pubblicata dal British Film Institute, elenca tra i registi fondamentali per il futuro del cinema mondiale proprio Alice Rohrwacher e Pietro Marcello per gli italiani.

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