top of page

The Florida Project: dove cercare il lieto fine

  • Immagine del redattore: Erica Yvonne Terenziani
    Erica Yvonne Terenziani
  • 22 apr 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Era l’estate del 2018 e in un cinema all’aperto della mia città davano una replica di un film di cui non avevo per niente sentito parlare, sicuramente me l’ero perso ma ebbi la fortuna, quella sera, di recuperarlo.

L’atmosfera di quel cinema ha sicuramente aiutato, rampicanti ed edera su tutti i muri dell’arena estiva, le cicale che smisero di cantare proprio quando il sole calò e faceva tanto tanto caldo, lo stesso caldo che provavano i protagonisti del film che stavamo per vedere.

Un Sogno Chiamato Florida (The Florida Project), un film del 2017 diretto da Sean Baker che racconta le vicende della giovanissima protagonista Moonee e dei suoi amici durante le vacanze estive. Ad una visione fantastica e idilliaca della realtà agli occhi innocenti dei bambini si contrappone la realtà cruda di un’America iperealistica. Il film infatti si ambienta nella periferia di Orlando appena fuori dalle porte di Walt Disney World, dove i motel brulicano dei dipendenti che lavorano per la multinazionale o di famiglie che faticano ad arrivare a fine mese e che risentono del clima di criminalità del luogo.


L’immagine è quella del “posto più felice del mondo”, che poi tanto felice non è appena si gira l’angolo e si scopre come si vive attorno. L’America non è dappertutto una favola, questo è il messaggio che il film vuole trasmettere e a parere mio ci riesce benissimo.

Come anche il regista spiega in un’intervista per IndieWire: “The issue of the film, which is the hidden homeless, was something I was unfamiliar with. I didn’t even know there was a term — the hidden homeless”. Il film esplora questo aspetto delle periferie americane che non conosciamo, i cosiddetti “senzatetto nascosti”, se così si può tradurre in italiano.

Il cinema rimane un medium di intrattenimento, ecco perché il film si focalizza sui bambini e sulla loro spensieratezza, in modo da far viaggiare lo spettatore con la mente, ma allo stesso tempo la pellicola utilizza questo mezzo per riflettere sulla povertà e su aspetti che in pochi conoscono.


"Housing is a fundamental human right, and I think the first step toward change is awareness, so if we can get more people to be aware of this national situation […] I hope this movie inspires people to get involved — donation, education, support, advocacy”,

spiega Baker.


In un articolo per Deadline, il direttore della fotografia Alexis Zabe spiega l’importanza dell’uso della luce naturale: ”I love working with natural light and because of circumstances of this film, it was possible to do so. It was convenient, and probably even necessary to do so because we really didn’t have the time to work any other way. It gives that neo-realist feel to the movie”. Una fotografia che riesce perfettamente a rendere il calore di quell’estate quasi visivamente concreto sullo schermo.

Per non parlare dell’atmosfera che evoca, delle ambientazioni e dei colori pastello così vivi, caratterizzazione che poteva solo essere realizzata in analogico. Questo “filtro”, per così dire (anche se il senso stesso del film non fa utilizzo di nessun filtro), onirico e etereo, tipico di questa pellicola, sta proprio nel significato stesso che si è voluto dare al film: rispecchiare visivamente la spensieratezza, l’innocenza e l’immaginazione dei bambini.

“When the kids are in shot, the camera is at their eye level. There isn’t a single moment on screen where we’re looking down on them. I wanted them to be big – kings and queens of their domain” spiega il regista a proposito dell’occhio del bambino, il cui punto di vista è sempre messo in primo piano.



Il film ha a suo favore delle sbalorditive performance attoriali come Willem Dafoe, che ricevette diverse nomination e premi come attore non protagonista (tra cui gli Oscar), nei panni di Bobby, il proprietario del motel color lilla, il Magic Castle. Il suo ruolo però va ben al di là del semplice direttore: assume una figura di riferimento, quasi eroica per tutti gli affittuari delle camere al motel, e in particolare diventa paterna nei confronti di Moonee, che un padre non ce l’ha. Si preoccupa per loro anche quando non gli viene chiesto, questo suo propenso istinto ad aiutare gli altri è uno degli aspetti più teneri del film.

Per non parlare di Brooklynn Prince, la protagonista, da togliere il fiato. Nonostante la giovane età (quando il film uscì Brooklynn aveva solo 7 anni), una naturalezza e una spontaneità davanti all’obiettivo quasi disarmante, e che lascia senza parole.



Un altro elemento che tende a caratterizzare la veridicità della narrazione è la mancanza quasi totale di una colonna sonora. Solo due canzoni si distinguono, una all’inizio, sui titoli di testa bruscamente interrotta, e una alla fine, ad accompagnare la scena finale. Durante tutta la durata del film regna solo il silenzio, i rumori della strada, le cicale o il vociare dei vicini al motel.

Nonostante la lentezza della narrazione che però sta a sottolineare la lunghezza delle giornate che i bambini passano nel cercare qualcosa da fare, è un film che fa tanto riflettere.

Il pubblico si interroga sul finale del film, ma non è tanto importante cosa significhi, quanto il far riflettere le persone, e se queste discutono riguardo all’argomento allora significa che l’intento stesso del film funziona.



La scena finale è stata girata al Walt Disney Magic Kingdom all'insaputa della direzione del parco, questo è stato possibile grazie all'utilizzo di un iPhone 6, una scelta ovviamente dettata da intenti logistici e pratici e il regista aggiunge (per The Hollywood Reporter): "It's not against the law, it's just against the rules, and sometimes you have to break rules to make a film". Allo stesso tempo la scelta di girare questa scena con un mezzo differente non è stata fatta a caso, con lo scopo di evidenziare una situazione non reale, ma un luogo parallelo, fantastico. Una visione iperattiva, ad accompagnare le bambine che corrono in una visione diversa, quasi stridente, dal resto del film.

Il finale del film ha quindi diviso il pubblico, una reazione che Baker non si aspettava, e in ogni caso non si intende incolpare Disney in nessun modo, ma come spiega in un’intervista per la rivista appena citata, è lasciato all’interpretazione ma non si suppone che sia letterale, è un momento nel quale lo spettatore si ritrova nella mente di un bambino. Abbiamo visto Moonee usare la sua immaginazione e meraviglia per l’intero film per vivere al meglio la situazione nella quale si ritrova: non può andare ad Animal Kingdom e quindi va a guardare le mucche dietro al motel fingendo che sia un “safari”, o ancora va alle case abbandonate perché non può visitare la Haunted Mansion di Walt Disney World.

E sul quell’inevitabile e drammatico finale, il regista stesso dice al pubblico: se volete un lieto fine, dovete cercarlo nella testa di un bambino, perché quello sarà l’unico modo per voi di averne uno.



The Florida Project lo trovate al momento disponibile su Netflix.

Comments


  • instagram

©2020 di La povera Olga. Creato con Wix.com

bottom of page